Winter Dies In June – Penelope, Sebastian

Winter Dies In June “Penelope, Sebastian”
Data d’uscita: 13 aprile 2018
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(presspage riservata alla stampa – DA NON PUBBLICARE)

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PENELOPE, SEBASTIAN

A circa quattro anni di distanza dall’ottimo disco d’esordio “The Soft Century” (2014), la giovane band emiliana dei Winter Dies In June torna sulle scene con un concept album maturo e che racconta la sua storia al contrario, partendo dalla fine. “Penelope, Sebastian”, in uscita il 13 aprile e seconda prova in studio della band, è la storia di un legame, certo un legame tra due persone, ma anche un legame tra quelle persone e i luoghi che li hanno raccontati (Londra, San Francisco e New York) e attraverso i quali si sono raccontati l’uno all’altro, costruendo la loro personale epica.

Il racconto parte dal momento dell’abbandono e va a ritroso fino all’istante del loro primo incontro. Non è un propriamente un concept, non è una storia… è semplicemente lo sforzo di raccontare la costruzione di una personale mitologia attraverso lo svolgersi delle azioni: Penelope e Sebastian agiscono tra loro e con quello che hanno intorno e facendo questo danno un tempo cronologico al ricordo, un tempo che per chi ascolta scorre al contrario. Ma questo racconto ha anche una voce che è quella di Penelope, che ricostruisce e cuce gli episodi tra loro e li plasma conferendogli una prospettiva.

Rispetto al precedente lavoro, “Penelope, Sebastian” rappresenta anche un deciso cambio di sonorità: le chitarre sono meno presenti in favore di un sound più arioso: gli arrangiamenti orchestrali di “The Soft Century” lasciano il posto ai synth analogici; l’attitudine post-rock del passato si evolve verso territori più propriamente shoegaze. La sfida diventa quindi unire le dilatazioni strumentali tipiche del post-rock con la melodia, il cantato più brit e dream-pop.

Il disco è stato registrato tutto in presa diretta ma in due studi differenti, sia come posizione geografica che come densità sonora. L’analogico della Sauna Studio con i suoi compressori, equalizzatori, il suo bel banco con i preamp che scaldano e rendono colloso e tattile il tutto, i reverberi Vermona che hanno innaffiato chitarre e voci, si alterna al Big Pine Creek. In mezzo a tutto questo c’è stata ricerca di una melodia che emerga anche per poco dal mare giù nel quale si continua a spingerla per tutto il disco. E forse poi, alla fine del giorno, questo disco rispecchia davvero la natura dei Winter Dies in June: ovvero la convinzione che il racconto pop, il songwriting sia non seppellito ma innalzato dal muro sonoro.

TRACKLIST

1. Aeroplanes
2. Sands
3. Sebastian
4. Boy
5. Nowhere
6. Space
7. Penelope
8. Different

CREDITS

Winter Dies In June: Alain Marenghi, Andrea Ferrari, Filippo Bergonzi, Luca Ori, Nicola Rossi.
Guests: Sara Loreni (backing vocals on tracks 1 and 3), Marcello Batelli (backing vocals on tracks 7 and 8), Martino Cuman (juno-106, microkorg, ms2000, acoustic piano and backing vocals)

Written by Winter dies In June
Tracks 1, 3, 6, 7 and 8 produced by Martino Cuman and Winter Dies In June
recorded and mixed by Martino Cuman and Andrea Cajelli at LaSauna, Varano Borghi (VA).
Tracks 2, 4 and 5 produced by Winter Dies In June, recorded and mixed by Francesco Rabaglia at Big Pine Creek, Parma.

Mastered by Giovanni Versari at La Maestà, Tredozio (FC)

TRACK BY TRACK a cura di Winter Dies In June

Aeroplanes: prima traccia ma anche ultima in ordine cronologico. La consapevolezza della fine e la tattica di distruzione del ricordo. Il pezzo ha una strofa piuttosto filante mentre il ritornello si svuota anche se rimane un incedere marziale, mentre Penelope analizza cosa è diventato Sebastian, un drogato di consenso che cerca senza trovarlo in mille persone quello che prima trovava in una. San Francisco e Londra fanno da sfondo allo svolgersi dell’azione E anche i ricordi musicali tra i due vengono seppelliti (“no Decemberists, no more Elliot Smith just an empty seat when I’m driving back home”).

Sands: forse il pezzo più british di tutto il disco, con una divisione sonora netta tra strofa e ritornello: il primo caratterizzato quasi unicamente dalla ritmica, dall’utilizzo di sinth Juno e rhodes, mentre il ritornello squaderna tutto il rumore che è chitarristicamente percepibile dall’orecchio umano e la voce si aggrappa all’ultima coda di armonia per restare a galla e guidare chi ascolta attraverso il racconto del legame di due persone con una canzone (So long Marianne).

Sebastian: canzone del ricordo nel ricordo, che si muove nella forma della ballad, anche se il tempo dispari dei ritornelli, i riverberi e linee melodiche più America che UK (Band Of Horses forse su tutti) la rendono particolarmente evocativa, poiché l’azione rimbalza continuamente tra il tempo passato e quello presente.

Boy: forse il pezzo più ambizioso del disco. Il brano del ritorno a casa e quello della ricerca del perdono. Con l’unico pezzo nel quale si sente la voce di Sebastian, che se la racconta e si dice “I’ll manage somehow”. Anche qui un brano con una netta divisione strofa ritornello, fino all’esplosione finale. Un pezzo che nella strofa sembra aprire ad un brano disincantato da college rock anni novanta, per poi fluire in un ritornello asciutto dove la psichedelia pop sconfina nelle bordate finali che sembrano richiamare (mutatis mutandis) da In Utero.

Nowhere: il brano del demasking, del “I don’t believe what you said”, mentre le tastiere, tenute a bada durante una strofa che deve più di una stretta di mano al Nick Cave più solare (esiste), arrivano ad accompagnare una melodia semplice, fatta di frasi semplici ma alle quali Sebastian non può ribattere. La semplicità del pop è tutta qui forse e forse anche la sua nobiltà: la ricerca di una melodia che nella sua semplicità è l’unica in grado di caricarsi sulle spalle quel testo.

Space: il pezzo più National del disco, almeno fino al finale, dove invece si aprono le cataratte dello shoegaze e si rispolverano gli abiti baggy di inizio anni ’90.

Penelope: è il pezzo più articolato e vario del disco, dove si aprono diversi momenti ritmici e sonori. Una scala discendente classica per strofa e una melodia che si arrotola in maniera differente sulla stessa armonia, vestendo più soluzioni. Finale quasi Verdena con mandate di “tutto quello che c’è nella pedaliera”

Different: il pezzo del primo incontro, due sconosciuti al concerto degli Strokes. Le chitarre acustiche che si intrecciano, due voci che si susseguono (la principale ed un coro in leggero fuori sincro che arriva da lontano, forse dal futuro). Qui la malinconia è ancora dolce, il legame si crea in mezzo alla folla, ed è pronto a raccontarsi.

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